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Roma, lunedì 14 Marzo 2011

Esseri da Artaud in Butoh

La crudele origine della crisalide 

 

di Livia Bidoli

Da Les Cenci di Antonin Artaud, presentato a teatro per la prima volta nel 1935, prende ispirazione Esseri di Ezio Tangini e Flavia Ghisalberti, una performance in forma di teatro-danza butoh all’Atelier Metateatro di Roma  l’11 ed il 12 marzo 2011. I corpi si flettono al ralenti, i movimenti sono insinuati più che agiti in un costante riflesso di quella corporeità in cui Artaud riuniva il suo Teatro della Crudeltà, insieme al suono radente delle improvvisazioni al violoncello di Frank Heierli.

L’avvicinamento di Antonin Artaud (1896-1948) alla tragedia di Beatrice Cenci (1577-1599), avviene tramite le opere ispirate alla sanguinosa cronaca del parricidio, dopo aver letto le due opere di Stendhal e di Percy Bisshe Shelley. Shelley scrisse The Cenci nel 1819 ma, a differenza di Artaud, interpreta il personaggio di Beatrice come vincente dopo aver ucciso il padre che l’aveva stuprata e che aveva maltrattato e molestato per anni i fratelli e la sua seconda moglie, Lucrezia Petroni, insieme ai quali organizzò l’omicidio. Ed infatti in proposito Artaud riferisce, a proposito prima della sfortunata e fallimentare rappresentazione del 1935:

“Les Cenci qui seront joués aux Folies-Wagram à partir du 6 mai prochain ne sont pas le Théâtre de la Cruauté, mais ils le préparent” (“I Cenci che saranno rappresentati al Folies-Wagram a partire dal 6 maggio prossimo non sono il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano”, trad. mia, l’anno cui si riferisce è il 1935). Queste parole vengono riportate nella sua opera Autour du Théâtre et son double et des Cenci (in Œuvres complètes, Gallimard, 1964). Pochi anni prima aveva conosciuto il teatro balinese che tanto influenzò le sue teorie sul Teatro della Crudeltà, un teatro che mettesse in scena un atto unico come la vita, un teatro fisico il cui proliferare sulle scena è una tortura nel senso che non separa dalla realtà ma la rappresenta con la sua stessa essenza originaria, êidolon:

Una “Crudeltà”- da cruor che in latino è “il sangue che cola dalle ferite[...] – che comincia dalla sua propria rappresentazione, che non la esorcizza in altro, credendo di allontanarla in immagine, ma la fa esistere per la prima e unica volta.” (A. Tagliapietra, Il Velo di Alcesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 1997; p. 40.)

Le movenze appena accennate sulla scena da Ezio Tangini e Flavia Ghisalberti, dipinti in parte di bianco come il butoh nato in Giappone negli anni ’50 (Ankoku-Butoh, dove ankoku sta per tenebre), i corpi nudi, i fremiti continui come di una crisalide che sboccia alla vita di Ghisalberti, ripetuti insieme al tappeto monotonico del suono del violoncello di Frank Heierli, seguono i principi sia del butoh sia di Artaud:

«Ci troviamo così improvvisamente coinvolti in una lotta metafisica, e il rigido aspetto del corpo in trance, indurito dal flusso delle forze cosmiche che premono su di lui, è mirabilmente espresso in una danza frenetica, e tuttavia piena di durezze e di angoli, dove si sente improvvisamente iniziare la caduta vertiginosa dello spirito. Come se ondate di materia rovesciassero le loro creste l’una sull’altra, affluendo da ogni punto dell’orizzonte per prender posto in una porzione infinitesimale di fremito.» (A.Artaud, Le Théâtre et son double (1938), trad.it. Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1972, p.181.)

Kazuo Ohno e Tatsumi Hijikata, iniziatori del butoh, avrebbero percepito la dolorosa essenzialità di una performance dove i corpi sono contratti quanto i volti, dove le torture subite dalla giovanissima Beatrice (Ghisalberti) per aver ucciso il suo persecutore mutano in un continuo scompaginarsi delle vertebre, la cui emissione sonora si riflette nell’acido stridore della plastica che indossa a mò di abito secentesco. Il concreto avvicinamento del suo persecutore, il Conte Cenci (Tangini), è retrattile ed esibizionista quanto un rettile, per demarcarla col suo rutilante e sanguinario panno, simbolicamente coniugato, come vorrebbe Artaud, con la parola che lo costituisce e lo determina come “cruda realtà”, quella che va appropriandosi del palcoscenico e degli stessi spettatori per rendersi finalmente “fisica” e non più cognitiva, nella sua nuda percezione sensoriale.

Pubblicato in GN43 Anno III 14 marzo 2011

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